martedì 29 marzo 2016

La strada, il cibo. Che civiltà!


La strada per me è stata maestra di vita. Non per niente amo definirmi uomo di marciapiedi. E sulla strada ho conosciuto e consumato anche tanto cibo. Consumare cibo per strada, a Bra, ai miei tempi era considerato di cattivo gusto. Vivere la strada era da sfigati, anzi era da terroni. Il cibo di strada, con le sue voci e la sua atmosfera, ha segnato la mia infanzia, soprattutto d’estate, quando la mia famiglia “scinniva où’ paise”, a Chiazza, (Piazza Armerina in provincia di Enna, famosa per la Villa Romana del Casale), col mitico Fiat 238 da 8 posti in cui io sedevo beatamente ai primi posti. Da ultimo di 6 figli, il cibo di strada, a Chiazza, me lo godevo dalle prime luci dell’alba fino alla sera. Per me era un rito, ed ero io l’incaricato all’acquisto ed al ritiro. Il cibo di strada a Chiazza, viaggiava su carrettini trainati a mano o da bici o da muli, da ape, da furgoncini, o da qualsiasi genere di trasporto, a volte vere e proprie opere d’arte di artigianato popolare, frutto della fantasia indigena. Ricordo personalissimi ibridi di ape-biciclette-carretto-furgone, con simpatici disegni e variopinti fregi allegorici ed estroversi slogan dialettali inneggianti all’acquisto. Ricordo anche che ciascun cibo di strada sembrava avesse la propria voce.  O meglio, la propria cantata. E io avevo imparato a riconoscerle tutte.  Il cibo di strada di Chiazza era ingegno, creatività, convenienza, gestualità, artigianalità… Era capacità imprenditorial-popolar-meridionale. Era, soprattutto, atmosfera di complicità fra gli avventori.....La mattina panino di granita al limone o di latte di mandorla, a metà giornata “panino cunzato o "u sfinciuni" (pane pizza morbido lievitato cosparso di salsa di pomodoro, cipolla, acciughe, origano e pezzi di caciocavallo), l’arancino o la ricotta fresca invece verso pranzo (si parla delle 2 dopo mezzogiorno), per continuare con lupini in salamoia, o “calia e simenza” (ceci e semi di zucca tostati), o pistacchi, tanto per passare il tempo del pomeriggio, fino alle mitica salsizza fritta e il cocomero e i cannoli della sera. Pochi, semplicissimi elementi della terra e della natura, accostati con grande sapienza e fantasia, combinati in ricette povere della cultura del posto. Venduti a strillo da gente bruciata dal sole, che recitava teatralmente pezzi dell’Orlando Furioso. Cibo vero, simbolico, capace di evocare cose forti al di là del nutrimento: cultura, amicizia, condivisione, gioia, narrazione. Consumavamo sul posto, in piedi, se no seduti sui gradini delle case affacciate su Scalazza Santa Veneranda, o a capannello in qualche baglio di cortile o dove ci trovavamo. Noi bambini giocavamo, i grandi “babbiavano”. Si socializzava, come si direbbe oggi. Che civiltà!

mercoledì 23 marzo 2016

Il gusto delle parole

Mi sono sempre chiesto quante delle parole che pronunciamo abbiano un senso e quindi anche un gusto. Le parole, si sa, hanno un ciascuna un significato ed hanno la capacità di rimandare a sfere di senso più intime e nascoste, come quelle che riguardano i sentimenti, i ricordi, i pensieri….. Con effetti diversi, incidendo e pesando, quindi, in maniera diversa, non solo da chi le pronuncia o scrive, ma anche da chi ascolta o legge.  Le parole hanno la capacità di farci andare con la mente a ciò che esse disegnano. Sono un atto creativo formidabile. Una parola  può  trasferire emozioni e sfumature, far immaginare o pensare qualcosa, e non servono solo per capirsi. Le parole hanno un gusto diverso, se dette o scritte in un certo modo, se poi ci mettiamo anche la mimica….., è un attimo rafforzarne o smorzarne l’impatto. Il gusto delle parole, se buono o cattivo, giusto o no, siamo noi a darlo e/o a riceverlo. Qualcuno pensa che, a volte, è quel che non si dice che conta di più delle parole che si dicono o si scrivono…, che hanno un potere più forte! Quante cose non diciamo, però, valgono un emozione, un giudizio, una giustificazione, una scelta…..?!?! Io preferisco dirle. E farmele dire. Per me le parole hanno e danno gusto! 

lunedì 21 marzo 2016

Finché c’’ho naso, vivo!

Di tutti i sensi, l’odorato è quello che mi colpisce di più. L'olfatto per me è memoria, emozioni, ricordi, intimità, identità. Odori e profumi mi fanno scegliere nella vita, non solo a tavola. Cerco odori confortanti dappertutto. Quando pratico sport all’aperto, ancora di più. Perché gli odori si possono raccontare, raccontano anche. E cerco di inebriarmi di quelli buoni che sento in giro. Li catturo, li respiro, li abbino, li catalogo, li conservo. Quando mi serve li ritiro fuori, anche per sognare. L’olfatto riesce a mettermi in moto i nervi. Le persone che amo io le respiro. Credo che se fossi in punto di morte, riuscirei a tenermi in vita annusando mio figlio.

mercoledì 16 marzo 2016

Com’era buono il pane del giorno prima

Non sprecare! Questo era l’imperativo di quando ero piccolo. I mie genitori me lo dicevano sempre, recitando uno dei detti popolari siculi che più mi rimbomba in testa ancora adesso: “i jornu non nni vogghiu e la sira spaddu l'ogghiu ”, per dirmi per esempio che potevo studiare di giorno,  invece che dedicarmi ad altro, e non alla sera quando non c’era più luce naturale e dovevo accendere, (quindi sprecando), la luce elettrica. Ma soprattutto non sprecare era l’imperativo dei miei genitori, per il cibo. Il cibo, mi hanno insegnato loro, non è solo nutrimento, ma anche qualcosa di cui avere cura.  Del pane soprattutto. “Sprecare pane si fa peccato” mi dicevano. Il pane…., che alimento straordinario! Pieno di simbolismi a capace di sfamare, con piacere. Mio padre mi raccontava che quand’era giovane e in miseria si faceva un intero “ vastedduni” (una forma gigante con crosta spessa tipo pane Altamura), con una sola oliva. Io ne vado matto. Peccato che trovarlo buono oggi, il pane, si fa fatica. Il pane di ieri i miei me lo facevano godere d’estate “cunzato”: una fetta di Vastedduni con crosta, olio extravergine di oliva a pioggia sul lato della mollica, origano, fette di pomodoro, pecorino, filetti di acciughe salate, di nuovo strato di primosale e poi ancora olio extravergine, fetta di pane a chiudere e avvolto nella cartadapane. Oppure tutto l’anno, soprattutto la mattina del sabato alla maniera del “ u’Limiuni”: in un piatto fondo spremere un limone intero, aggiungere acqua fresca fino al bordo, due o tre cucchiai di olio extravergine di oliva, sale e inzupparci il pane di ieri, (ma quello buono), con crosta spessa. Aspettare che il pane si ammorbidisca, ma non troppo e mangiare a cucchiaiate. La variante più gustosa era quella con l’aggiunta di aglio sminuzzato fine, che ci facevamo ogni tanto. “Sfama, Pulisce, Disinfetta, Rinfresca” – mi dicevano i miei.
Con le uova e i piselli al sugo invece me ne mangiavo una tonnellata. 
Com'era buono il pane del giorno prima!

lunedì 14 marzo 2016

La vigna che non c'è più



Guardavo quella piccola vigna li sotto casa, che adesso non c’è più, e provavo gioia, ma anche malinconia. Gioia perché per me la vigna è vita e il suo frutto è incredibilmente affascinante per come sia affina, per come costruisce il suo carattere e perché chiede cura e pazienza per maturare…. Malinconia perché non riuscivo ad accudire sta vigna per come volevo e perché sapevo che un giorno sarebbe stata rimossa quando, e come, chi l’aveva governata fino adesso avrebbe voluto. Nel grande codice della nostra cultura, la Bibbia, si narra il mito di Noè che per primo piantò e coltivò una vigna. Come un gesto di speranza: il primo contratto di un matrimonio con la terra. E quel contratto con questa, (seppur mia), vigna, purtroppo non l’avevo fatto io. Staccarsi dalle proprie cose, anche quelle materiali, non è facile, lo so molto bene. E poi esiste un rapporto viscerale fra la terra e le persone, ancor più quando questa terra è capace di dare buoni frutti che le stesse persone hanno allevato e colto. La vigna la si lavora instancabilmente, dedicandosi totalmente tutto l’anno, con quel lavoro certosino che va dalla potatura invernale fino alla raccolta autunnale. Con cause ed imprevisti come può essere il bello e il cattivo tempo, che non dipendono da noi.  Curare la vigna è come curare la propria vita. Attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della maturità…Ma è anche curare e far crescere un qualcosa che si sente proprio, che non si vuole condividere, di cui ci si sente non solo innamorati, ma anche padroni gelosi. Nella cura e crescita di una vigna ci sta tutto quel che è la vita: l’amore, il lavoro, il tempo, la natura, il frutto, il vino, la gioia, il pianto…Quella vigna sotto casa che guardavo con gioia e malinconia adesso non c’è più: non so se sarò capace di ripiantarla, ma se avrò la forza e il coraggio per farlo, vorrei che qualcuno, un giorno, se ne prendesse cura. Oltre me.

giovedì 10 marzo 2016

ASCOLTARE LE PAROLE

Chi mi conosce sa che amo l’arte in genere, quella  pittorica di più. Una passione che coltivo fin da ragazzino grazie ad alcuni artisti locali della zona in cui abito, che mi hanno permesso di avvicinarmi alla pittura in maniera semplice, ma approfondita. Con le loro opere non mi parlavano solo di immagini, ma di modi di vita, del tempo, dell'umanità, delle cose. Con quel tocco di nobiltà artistica pura che li distingueva e che sapevano imprimere sulle tele. Artisti che mi hanno saputo parlare, ma soprattutto ascoltare. ASCOLTARE: che bella cosa! L’udito è un senso  sempre in funzione perché le orecchie sono sempre aperte, a differenza della bocca e degli occhi, non possiamo chiuderle. Le orecchie sono sempre aperte sul mondo, ma siamo capaci di ascoltare? ASCOLTARE LE PAROLE non è di tutti.  ASCOLTARE LE PAROLE è un esercizio che sa di rispetto, di dialogo, di apertura, di condivisione, di verità. Perché se è vero che non possiamo permettere alle parole di raggiungerci, (quante volte tendiamo solo l’orecchio,  senza ascoltare, facciamo “ orecchie da mercante”…?), ASCOLTARE LE PAROLE non è sempre facile. Ricordo spesso mio padre che mi ripeteva sempre di ascoltare bene le sue parole…. Come lo vorrei adesso! Chissà quante cose mi sono perso…! ASCOLTARE LE PAROLE, lo so molto bene adesso esprime sentimento. Esprime  il passare del tempo, così fugace. A casa mia fa bella mostra un quadro di arte moderna, che acquistai da un giovane pittore in Umbria, ai tempi in cui cavalcavo le colline del Sagrantino, su cui nel suo centro appare orizzontalmente la scritta “ASCOLTARE LE PAROLE”, protetta  da una listarella di plexiglass. Lo scelsi per quella frase. Perché era quello che mi diceva sempre mio padre e perchè non si finisce mai di imparare ad ascoltare. E’ un quadro che indico sempre a mio figlio come fonte di insegnamento, per cercare di non perdersi mai nulla. ASCOLTARE LE PAROLE. Che bello! Speriamo che Enrico non abbia da pentirsi come me.

martedì 8 marzo 2016

Cuoco 3.0

Il “mestiere” di cuoco, l’insieme delle conoscenze ricevute a scuola e poi in cucina, non è più un patrimonio sufficiente ad affrontare le nuove sfide. La responsabilità sociale è ormai una parte fondamentale di quello che significa essere uno cuoco moderno. Aiutare i contadini a coltivare i migliori prodotti, educare le persone alla lotta allo spreco, esplorare nuovi ingredienti, cambiare i metodi di fruizione del cibo, creare progetti per l’alimentazione (sana e di gusto) dei malati negli ospedali e degli anziani nei ricoveri, combattere contro o a favore degli OGM, proteggere prodotti rari che rischiamo di perdersi, esporsi pubblicamente per le carenze alimentari in diversi paesi, preoccuparsi di salute e obesità, discutere di politica sociale, spiegarci esattamente cos'è una pianta transgenica e come potrebbe cambiare il sistema alimentare nel futuro….. Se tutto questo sono le cose per cui si dovrebbero impegnare in futuro gli chef non credo avranno più tanto tempo per andare in giro a relazionare sulla loro filosofia di cucina nelle diverse manifestazioni “congressuali” ormai fotocopia una dell’altra che si susseguono a ritmo sostenuto in ogniddove. Io sarei più felice saperli impegnati nella responsabilità sociale che ormai li vede per gioco forza artefici del loro futuro, piuttosto che vederli ogni tre-per-due sopra un palco “congressuale” autoreferenziale a celebrare la tecnica "centrifugaperosmosiinversacoagulanteedefribillata", della ricetta "spaghetti aglio olio e peperoncino 3.0"…. Lo so, per lo chef 3.0 con responsabilità sociale è molto più faticoso che pensare al menu del pranzo di domani...Ma almeno se non lo vediamo tra i fornelli del suo ristorante quando siamo a pranzo da lui ce ne facciamo una ragione....

venerdì 4 marzo 2016

C’è voglia, c’ho gusto

C’è voglia di giocare, c’è voglia di arte, c’è voglia di bellezza, c’è voglia di viaggiare, c’è voglia di comprare, c’è voglia di uscire, c’è voglia di lavorare, c’è voglia di ballare, c’è voglia del non so che....Le origini del buono, del bello, del gradevole…,esistono in noi stessi: ricercarne le ragioni vuol dire cercare le cause dei piaceri del nostro animo. Esaminiamo il nostro animo, studiamolo nelle sue azioni e nelle sue passioni, cerchiamolo nei suoi piaceri. E’ qui dove si manifesta maggiormente il nostro gusto, che non è nient’altro che la capacità di scoprire con finezza e prontezza la misura del piacere che ogni cosa ci deve procurare. C'è voglia, c'ho gusto!

mercoledì 2 marzo 2016

Critica e Creazione

In sto periodo sento sempre più frequentemente dire che, prossimamente, un critico gastronomico affermato, un opinion leader del settore di indubbio successo, aprirà un ristorante. Quindi, se questo è vero, egli non si contenta di fare il critico, il sociologo, il filosofo, il polemista….Vuole fare anche l’artigiano del cibo, l’eroe della cucina (come mi piace chiamare i cuochi professionisti che lo fanno per mestiere). Giudicare, da che mondo è mondo, è stato sempre facile. Difficilissimo è mettersi al posto del giudicato e fare come, o meglio. Nel mondo della ristorazione ciò che secondo me dovrebbe determinare un giudizio sensato, non sono tanto i dati soggettivi del giudicante, quanto i dati oggettivi che appartengono al giudicato e a quel che gli permette di professare. I dati soggettivi infatti appartengono a quella sfera del gusto, soprattutto in generale e del modo di vedere le cose, di cui ciascuno mette una regola o un “gusto” proprio e si riferiscono quindi alla sfera intima di ogni soggetto, che deriva dal proprio vissuto….Intendiamoci, dove ci sta anche la qualità, ma qui si apre di nuovo un mondo perché come detto sopra i parametri cambiano secondo ciascuna esperienza. Il dato soggettivo cambia quindi da soggetto a soggetto visto che non siamo tutti uguali e i gradi di giudizio su questi argomenti, fortunatamente, sono differenti. Ma il dato oggettivo invece, quello che dovrebbe essere il dato universalmente riconosciuto come principale per un giudizio democratico e vero, cos’è? E’ tutto ciò che è esterno al gusto del giudicante, che esiste indipendentemente da lui (giudicante), e che ha un alto grado di universalità.  Sono quelle regole di base che stanno dove il piatto inizia a prendere forma. E delle quali bisogna tenere conto, oltre il fatto scontato che chi cucina sa farlo comediocomanda. Sono l’etica, la pulizia, l’ordine, i tempi di esecuzione, il rispetto dei codici gastronomici, la conoscenza della strumentazione riferita alle diverse tecniche di cottura….Ma chi giudica dovrebbe conoscerle. E a studiare si fa fatica!


martedì 1 marzo 2016

Non mescoliamo le cose

Non mescoliamo le cose!
E' questo un principio minimo di ordine che ho scoperto, da un po’ di tempo, essere costante del mio percorso di vita da cinquantenne. L’ho capito tardi, (ma come si suol dire meglio tardi che mai), e lo pratico quindi di più o forse solo con più consapevolezza, adesso, in età matura a quasi 53. Non mescoliamo le cose, quindi me lo dico e lo faccio con più frequenza adesso che sono un po’ più attempato. Non mescoliamo le cose è un principio di ordine che se ci pensi bene esige trasparenza di pensiero, sapere, chiarezza di discorso, coerenza nel fare…. Non mescoliamo le cose è un principio estremamente esigente. Oggi, quindi,  non mescoliamo le cose lo sento più tollerante di un tempo e lo colloco meglio al posto che secondo me deve stare. Non mescoliamo le cose lo riscopro infatti più fecondo nelle scelte quotidiane, nei rapporti umani, nel lavoro, nei sentimenti, nel gusto…. Non mescoliamo le cose adesso mi sembra molto ragionevole. Per non appiattire tutto in un magma indefinito e non fare casino. Non mescoliamo le cose è un principio democratico che deve vivere in tutti noi per dare un’ identità propria e vera a ciò che ogni cosa è, o vorrebbe essere. Ci sono cose degli uomini e cose della terra, della religione e della  politica, degli interessi e degli affetti, della natura e dell’artificio, delle professioni e dei passatempo …… 
Non mescoliamo le cose! Tutto questo, amici, per dirvi che non sono un blogger come qualcuno ha pensato e mi ha scritto.