martedì 30 agosto 2016

A'cunzerva

Ad agosto si facevano i turni nel condominio di via Goito, per fare a’cunzerva in cortile…Si guardava prima la luna, poi ci si metteva d’accordo sul calendario fra le famiglie meridionali del palazzo che avevano st’usanza. Oltre la mia, Legame, Attisani, Bonifacio, De Marco, Riccobono, Carbone, Lisai... Una passeggiata per noi “picciriddi”. Un rito, un’impresa titanica, una faticaccia "p'i ranni". Il cortile di via Goito, ad agosto, era esclusiva p'a’cunzerva….Non si giocava, non si parcheggiava, non si babbiava. Tanto che per settimane intere l’aria che si respirava lì sapeva di salsa di pomodoro. Frugandomi dentro oggi, (Sigh!),  mi riaffiorano, precisi, tutti i gesti, i segreti, gli ingredienti, le dosi, le operazioni d'a’cunzerva Di Dio. Anzi di mia madre. Perchè era su mia madre, ogni volta, che la responsabilità d'a'cunzerva pesava come un sacco di piombo… C’era da sfamare otto cristiani e lei, “u succu”, non potendo moltiplicare né pane né pesci, non lo metteva solo nel latte… Quand’ero piccolo, sapevo che era quasi l’ora d'a'cunzerva già quando preparavamo le bottiglie in cantina. Una quantità infinita di “buttigghie” e “buttigghiuni” che allineavamo in cassette di legno, d’altri tempi, alte e robuste. Il momento da’cunzerva, invece, sapevo che era arrivato quando al mercato mia madre faceva caricare macchinate di pomodori maturi che comprava, trattando il prezzo fino alla lira. Dai suoi “monzù”, i contadini fedeli della zona, al mercato del venerdì sulla Rocca. Non senza prima accertarsi, sollevando i primi strati, che i pomodori in cassetta fossero tutti sani…Non “m’purriti”, marciti, e nemmeno “maccati”!! Che storia…!?! Mi ricordo degli anni in cui mia madre esagerava addirittura, con la quantità….(Sigh!). E allora, nel cortile di via Goito, arrivava anche il contadino col trattore e il rimorchio carico a consegnarci i pomodori pa’cunzerva...! "Far’ a’cunzerva" per noi Di Dio, che in famiglia eravamo una tribù, significava tutto. Risparmio, gusto, salute, dignità, orgoglio, condivisione, abbondanza, generosità... A’cunzerva era pure un momento di unione familiare e di vicinato. Anche se, all’inizio, i pochi piemontesi del palazzo, i Barbero, i Marengo, i Sala, ci guardavano  per tutto il tempo, sospettosi e curiosi, dalle loro finestre senza mai uscire sul balcone…S’impressionavano..., “meschini”! Nel vedere quintalate e quintalate di pomodori lavorati in quattro metri quadri, con gesti per loro impossibili. In un traffico di figure scure, e voci dialettali per loro a quell'epoca incomprensibili, che si rincorrevano dalle prime luci dell’alba fino a sera. Quando toccava a noi Di Dio a'cunzerva, alle 5 del mattino, in cortile, era già tutto perfettamente predisposto e ordinato. La gomma dell’acqua, chilometrica, che calava giù dal balcone attaccata al rubinetto di casa, (ero io che mi facevo su e giù per due piani ad aprire e a chiudere). Il  bombolone del gas, enorme e minaccioso. Il tripiede della fiamma con sopra a"caurana, il pentolone fuori misura in cui si cuocevano i pomodori. I “mastidduni”, i giganteschi recipienti di plastica a tre maniglie per lavare i pomodori uno a uno. I “buttigghi” e i “buttigghiuni”, possibilmente quelli verde scuro, spessi, incastrati bene senza spazi tra loro, nelle cassette tutte intorno alla fiamma a scaldare. Il tappa bottiglie manuale, già oliato. Il secchio pieno zeppo di tappi di sughero, quelli migliori, quelli larghi, che costavano una cifra.... Il tavolo in formica con piazzata su la mitica spremipomodoro, metallica a manovella. 4 sedie forti, anche se mezze "scasciate". I mazzi di "basilicò" a iosa. Le paccate di sale rigorosamente grosso. E poi, pile di coperte di lana, spesse e pungenti, per coprire almeno una settimana le bottiglie piene d’cunzerva. Mia madre era il generale che gestiva tutte le operazioni. Con occhi dappertutto…. Poche parole, ma di comando. A chi era all’acqua, a chi era al fuoco, a chi alle altre infinite operazioni. “A’cunzerva sadda fari ‘na vota sula”! - era il suo imperativo. Cioè si fa tutta in una volta! Non importa se ogni anno lei aumentava la quantità, e ne faceva a più non posso con la scusa che i pomodori costavano qualche lira in meno al chilo…. Avevamo un meotodo tutto nostro p'a’cunzerva....! Si toglievano i “piccuddi” dei pomodori, prima di lavarli. Poi i pomodori si schiacciavano uno a uno con una mano, usandole tutte e due insieme, per togliere l’acqua interna...Un "travagghiu p’puzzi, (polsi), forti...!". Così, si mettevano a cuocere sulla “caurana” per ore, e ore, e s'"arriminava"...! Si rigirava, sempre nello stesso verso, con un bastone tipo remo di barca. Col "rematore" di turno, ruscellante di sudore per il caldo e per il fumo che bruciavano pelle e occhi, che doveva evitare di farla“appigghiare ou funnu”. Una volta cotto e ricotto al punto giusto (Sigh!), il pomodoro si passava da un contenitore all’altro... Lava incandescente...., colata prima nel colapasta, perché secondo mia madre non doveva vedersi nemmeno un semino... Poi nello spremipomodoro a mano, con la manovella che non si fermava mai… Passato il tutto, almeno due volte, si rimetteva di nuovo a ribbollire... Solo più per "'na sussunnata", però (Sigh!)! Per “aggiustarla” di gusto, con zucchero e sale. Il basilico, lo mettevamo solo in ultimo. Foglia per foglia, crudo, direttamente nel collo delle bottiglie, un attimo prima di riempirle, col lavoro a catena, d'cunzerva zampillante. Alla fine si tappava, avendo cura di oliare prima l'enorme tappo per facilitare l'operazione. Ogni tanto qualche buttigghia o buttigghiune “esplodeva”….E per mia madre, era come un lutto!

martedì 23 agosto 2016

Comfort food

Si chiama “comfort food”. Cibo che ti coccola, che ti fa star bene, comodo. Che ti rimette in pace con te stesso. Un bel cashmerino, insomma, del palato e della pancia. Il termine ce lo siamo importato dagli States…(Sigh!, loro si che se ne intendono in fatto di creazione continua di tendenze, acronimi, sigle, modi di dire…), e da un po’ di tempo va molto di moda anche da noi. Comfort food per indicare quello o quell’altro piatto, pranzo, cibo,  che ti fa star bene. Qualcosa che ti rende preda di un esprimibile benessere... Ne parlo solo oggi, perché ultimamente il comfort food, quello che ti fa anche ricordare le tue origini, le tue radici, ho avuto la fortuna di “trovarlo” pure fuori casa in alcuni locali che ho frequentato. Così ho pensato di scrivere quel che secondo me è la miglior manifestazione del “Comfort Food”. Senza tante sofisticate acrobazie mentali…! Per me, il comfort food, rimane quello compiuto dai dolci rituali della tradizionale settimana alimentare italiana. Il comfort food lo si può benissimo tradurre nei cinque giorni della nostra cucina ordinaria e profana. Un giorno, il venerdì di astinenza, dalle carni. La domenica di cucina festosa e sacramentale. Una settimana alimentare in cui si risparmia e si abbonda. Non l’eccesso del cibo e neanche la sua scarsezza. Una filosofia gastronomica che non conosce sprechi, splendori insoliti e stravaganze, ma che si raccomanda per il temperato buon gusto. Non so quanti amino praticare il rituale della tradizionale settimana alimentare italiana….! Io, per quanto posso, lo faccio. Il mio comfort food, la cucina ordinaria e profana, la cerco dentro e fuori casa. In un’alternanza non solo di cibi, ma anche di tempi di consumazione, di atteggiamenti, di lessico, di gesti, di valore assoluto. Per me il comfort food sono i pranzi che esprimono un tipo di cultura nel quale, oltre il convivio di sopra, anche il gusto, la tradizione, il tempo e l’economia, hanno un valore vero. Ahh, le ore e i tempi del convivio….! Ahh, i soldi spesi bene….! Ahh, l’armonica e ben dosata varietà delle portate….! 


martedì 16 agosto 2016

Patologia moderna

Estate, caldo, mare. Le località balneari sono al massimo splendore.  Il litorale fiorisce, la gente si spoglia, e se ne vedono di tutti i colori. Non parlo di abbronzature. Parlo di noi che popoliamo il bagnasciuga con indosso non altro che il costume! Quel che basta per esaltare lo stile…. Quest’anno, c’ho fatto ancor più caso. E ho notato un numero impressionante di bambini, maschietti e femminucce, indifferentemente, con seni da adulti. La ginecomastia puberale sta avanzando in maniera esponenziale tra le nuove generazione. Con tutti i problemi, fisici e psichici, che ne comporta. Il contributo dell'alimentazione nella comparsa della ginecomastia è molto alto. E' il più importante! Dipende dal fatto che si mangiano i cosiddetti cibi “simil-estrogenici". Quegli alimenti cioè, contaminati da sostanze che hanno una particolare affinità per i recettori degli estrogeni. Ce ne sono un fottio in giro di componenti chimici che possiedono caratteristiche nocive… I principali? Fitofarmaci, promotori della crescita del bestiame, farmaci per uso umano e veterinario,.…..Ma ci sono un’infinità di cose, alimentari e no, che possono contenere sostanze chimiche estrogeniche dannose per la salute. Peccato che non vengono fuori nelle etichette. Facendo riferimento al cibo, per esempio, i componenti estrogeni di sopra, “fioriscono”  negli allevamenti intensivi, nei mangimi, nei concimi, nei trattamenti della terra... E di conseguenza  nei loro derivati, ovviamente.  Nella carne, nel latte, nel pane, nella verdura, nella frutta. Niente si salva! Tutto può contenere o contiene  estrogeni. Quando non basta il cibo, noi, la ginecomastia, la aiutiamo con gli integratori. Demenziale! Abitudine che solo apparentemente, però, appartiene agli adulti. E non solo tra gli sportivi! Gli integratori ormai si trovano in ognidove:  farmacie, parafarmacie, grande distribuzione…E abbondano pure i loro distributori automatici ormai dappertutto, nelle aree di servizio, nelle palestre, negli aeroporti, nelle stazioni, nei posti di lavoro, nelle scuole… Non si mangia più quello o quell’altro cibo, perché tanto non sono più come una volta, non contengono più certi principi…., e allora si va di integratori. Oppure, ancor peggio, si mangia tutto e si “integra”, anche. La colpa, dicono,  è del degrado ecologico della biosfera. I valori nutrizionali della nostra agricoltura, grazie alle tecniche di crescita forzata, non valgono più una mazza. Finché l’agricoltura non recupera la sua ecologia, garantendo però anche adeguati livelli produttivi, non se ne esce. Finché la qualità dei prodotti non è corrispondente a quei requisiti nutritivi che garantiscono all’uomo, non solo la sopravvivenza, ma soprattutto la migliore qualità della vita e la salute, siamo in trappola. E ci rimarremo parecchio. Almeno fino a quando non saremo disposti a resettare il sistema della chimizzazione agricola e rigenerare, o forse meglio rinnovare,  la terra. E dopo, anche, fino a quando saremo finalmente disposti a pagare un chilo di verdura buona, ecologica, non trattata, (da non confondere con biologica), almeno quanto una più scarsa confezione di integratori… Sigh! Si, lo so, credete sia un visionario che si illude di poter vivere in un nirvana avulso dalla realtà….! Ma volete mettere….., per i nuovi ometti, soprattutto…, crescere senza il complesso delle tette grosse?!?

martedì 9 agosto 2016

Tipico a tutti costi

So che ci avete fatto caso da un pezzo anche voi. Il mosaico culinario nazionale, durante i mesi estivi, tende fatalmente a polverizzarsi capillarmente in migliaia di Sagre, incontrollabili, per promuovere prodotti tipici e ricette della tradizione. La scena, solitamente, è quella della rappresentazione del tipico, della cucina popolare, esercitata da variopinti gruppi sociali, di etnie, di varietà municipali, di genealogie dialettali, che fanno la gara a chi ha più fantasia ad inventarsi un qualche appuntamento ciboso in una qualsiasi Piazza d'Italia. No so a voi, ma da un paio di mesi a sta parte a me sono arrivate una cifra infinita di news letters, mi sono passati fra le mani non so quanti depliant o comunicazioni similari, che riportano programmi di feste o sagre inneggianti al tipico e alla sua cucina. Programmi il cui frontespizio è già irto di slogan, di messaggi programmatici, di titoli, di grafica, inneggianti il gusto. In ognidove, il cibo è messo lì a catturare consensi, oltre che celebrare l’orgo­glio delle radici. E’ l’uso estivo sociale del cibo…! La gastronomia italiana del prodotto tipico, che degenera il più delle volte in banalissima solennità conviviale popolare, quasi di derivazione carnevalesca...Alcuni favorevoli alle situazioni di destra, altri indirizzati piuttosto a sinistra. Alcuni promossi come conservatori, altri dichiarati innovatori… In un gioco quasi rituale, uguale. Dove, però, non sfugge anche l’elemento economico per chi organizza e gestisce! Che ha un ruolo di rilievo non indifferente, nonostante, alla maggior parte delle Sagre, lavorino a ciclo continuo, furiosamente, per tutta l’estate, pure nel giorno del Signore, associazioni di variegata fauna, politico-religioso-assistenziale-nostalgica….Così rendono le Sagre più "democratiche", più "umane"..., più “pulite”. La scusa è quella di voler soddisfare, orgogliosamente, la frenetica domanda del popolo vacanziero, della cucina dialettale, popolare, municipale, locale….Con un'offerta "buona-sfiziosa", low cost! Nella “sacralità” di questi rituali culinari estivi si consuma freneticamente l’esaltazione del tipico a tutti costi. Cascando, il più delle volte però, nel cerimoniale del “vale tutto”... Basta che si mangia e si beve. Dove non c’è il tipico, manco se lo inventano, si punta sul classico che non delude mai: la Sagra del pro­sciutto, melone e bruschet­ta, la Sagra  degli spaghetti, la Sagra del fritto misto, la Sagra della cozza, la Sagra della pasta cu l’agghia e sasizza arrustuta…..Alle Sagre però va anche in scena, mascherata, la manipolazione “politica” del consenso…..Il prodotto tipico, usato come persuasore occulto, di sinistra o di destra, consacrato a paladino del “Vota Antonio” di turno del territorio. Il tipico a tutti costi, mito trionfante e influenzatore, al servizio dei consensi e dei profitti facili anche. E’ questo l’effetto morale 2.0 degli alimenti "local" che salta agli occhi d'estate. Comunque sia, potessi, io non mi perderei le sorprese della Sagra della "Ficamaschia dorata", (il merluzzetto fritto), il valore lustrale della "Sagra dei Ciammaruchigli", (le lumachine di terra), la magia della "Sagra dei Cecapreti", (la pasta tipo gli strozzapreti), l'alchimia della "Sagra dei Fasul scucchiu­larèdda", (i fagioli salernitani)...Ma nemmeno le vertigini della Sagra “Te c'hanno mai mannato a stò paese?”…

lunedì 1 agosto 2016

Menu in corsia

“Ciascuno esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all'infinito. E' il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte” - come diceva il saggista e autore Ivan Illich. Senza dimenticare che "questo disgusto dell'arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana" - sempre Illich - la notizia che segue, arrivata via web, mi offre lo spunto per quel che scrivo. “In Canada ad Ottawa, il manager mangia il cibo del suo ospedale e cambia il menu in corsia perché gli fa schifo...”. Ora alzi la mano chi di voi ha fatto tappa, corta o lunga, in un qualsiasi reparto d’ospedale e ha mangiato cibi pattumiera….Al limite della nausea, se non del disgusto. Siamo un casino! Lo so! Sfioriamo l’en plein! Brodini timidi, minestre insapore, polpettine sgonfie… Purè, carote, verdure lesse, a bivaccare malinconicamente in contorno. Pere o mele cotte, asciutte, smunte, senza quasi più polpa, che non hanno più nulla a che fare con la fruttanutrizione! Figuriamoci con l'appetito.... Quando si ha fortuna in ospedale però spunta anche il menu "consacrato". Solitamente è quello domenicale, che si arricchisce  di “stuzzicanti” varianti. Così, all’ordinaria amministrazione, si aggiungono farfalline senili al sugo schivo, prosciutto cotto, sempre giù di corda, bistecchina d’arrosto, color grigio topo, millimetrica, gommosa, con più nervi che carne.... Quando vedi tutta sta specie di derivati alimentari più vicini agli esteri vinilici poliespansi, buttati lì nel piatto, sofferenti, ti rendi conto di chi è più malato! Ma questo passa il convento! In atmosfere così poco estetizzanti, in una specie di teatrino, perlopiù regolato tristemente da scandali e bustarelle, si consuma il quotidiano rituale culinario della nostra religio ospedaliera. Coi pasti inespressivi serviti in corsia, che alla fine finiscono più nel bidone dell'umido che nelle pance dei degenti. Anche perché quelli caldi te li portano freddi, e viceversa… "Colpa del cambio di turno!". Sigh! All’ospedale, però, il menù, da un po’ di tempo te lo fanno anche scegliere. Alla mattina, dopo la prima "colazione". "Così hanno il tempo di preparare bene quel che scegli …." - pensi! Scegli su un foglio prestampato, mettendo crocette qua e là. Se non puoi farlo tu, lo fa un parente che conosce i tuoi gusti.... Sigh! Le opzioni delle vettovaglie sono quasi sempre le stesse. Fiacche, quando va bene. Poco tempo fa un mio amico Chef rinomato conosciuto da tutti, che in sto periodo sta anche facendo consulenza ad una società proprietaria di cliniche ospedaliere private, mi diceva che solo il 10 per centro delle strutture in Italia ha servizi mensa adeguati… E che la media food cost di un pasto giornaliero in un ospedale italiano è di  45,00 euro. Ma ci sono ospedali che per "sfamare" i loro pazienti spendono fino a 60,00 euro al giorno. Sigh! "Si può spendere molto, molto meno, all'attuale normalità, facendo mangiare meglio" - mi diceva. "Scegliendo materia prima di qualità, unendola a porzioni umane. Proponendo menu con regimi alimentari più ricchi, più protettivi, che variano anche sensibilmente secondo le stagioni. Acquistando dalle vicine produzioni del territorio. Utilizzando diverse tecniche di conservazione e di cottura. Aggiungendo pure la differenziazione dei menu per reparto, allo standard alimentare di buona qualità. Decine e decine di euro in meno!". Io lo sostengo da sempre che se in ospedale si mangiasse “normale”, si spenderebbe meno e sarebbe più facile e più veloce  guarire.! Che se un paziente lo si nutre poco o male, non ha capacità di recupero! Che se non recupera, resta in ospedale più a lungo! Che se viene dimesso in condizioni precarie, ci ritorna! Che così, i costi aumentano! Ma l’antico privilegio del malato, ormai, se n'è andato. A mia memoria, non so quando. Da una vita credo, e, comunque, da quando siamo in spending review si è fantasmizzato. Ora, senza varcare il confine della retorica…, se è pure vero che nei casi di eccellenza i malati devono sottostare a diete rigorosamente “ospedaliere”, per la maggioranza dei ricoverati i cibi però possono essere anche un po’ più mirati! Cioè, se mi rompo una caviglia, non è che non posso più masticare...! E allora…?!? Non dico di servire menu arditi a base di tajarin al sugo di salciccia, bistecca alla fiorentina, ossobuco, costoletta alla milanese, caponata, saltimbocca alla romana, lombo di maiale, triglie alla livornese, cozze alla tarantina, tiramisù, bavarese, zuppa inglese…Però…! La rablesiana Penia, inventrice di tutte le arti e di tutte le tecniche della sopravvivenza, dovrebbe spingere le onniassitenziali strutture del nostro bel Paese a qualche pensiero sul perfezionamento dietetico in corsia ed ad una liturgia alimentare più "cristiana".... Opponendosi, certo, alla nostra cultura della gola, ingegnosa seduttrice, che il più delle volte ci spinge a mangiare più del bisogno.... Però...! Si avvicinassero almeno un po' al pensiero di una cucina per persone sobrie, anche se bisognose... Cercando di rappresentare e servire l’arte più semplice della cucina popolare. Quella di apprestare vivande per soddisfare al bisogno della vita! Per sfamare e far campare! Dite che se fosse così, in 'sti tempi di depressione economica, c’è pericolo che all’ospedale ci vorrebbero finire tutti?