“Ciascuno
esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a
lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all'infinito.
E' il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte” - come diceva il
saggista e autore Ivan Illich. Senza dimenticare che "questo disgusto dell'arte
di soffrire è la negazione stessa della condizione umana" - sempre Illich - la
notizia che segue, arrivata via web, mi offre lo spunto per quel che scrivo. “In Canada
ad Ottawa, il manager mangia il cibo del suo ospedale e cambia il menu in corsia perché
gli fa schifo...”. Ora alzi la mano chi di voi ha fatto tappa, corta o
lunga, in un qualsiasi reparto d’ospedale e ha mangiato cibi pattumiera….Al
limite della nausea, se non del disgusto. Siamo un casino! Lo so! Sfioriamo
l’en plein! Brodini timidi, minestre insapore, polpettine sgonfie… Purè, carote, verdure lesse, a bivaccare malinconicamente in contorno. Pere o mele cotte, asciutte, smunte, senza quasi
più polpa, che non hanno più nulla a che fare con la fruttanutrizione! Figuriamoci con l'appetito.... Quando si ha fortuna in ospedale però spunta anche il menu "consacrato". Solitamente è quello domenicale, che si arricchisce di “stuzzicanti” varianti.
Così, all’ordinaria amministrazione, si aggiungono farfalline senili al sugo schivo, prosciutto cotto, sempre giù di corda, bistecchina d’arrosto, color grigio topo, millimetrica, gommosa, con più nervi che carne.... Quando vedi tutta sta specie di derivati alimentari più vicini agli esteri vinilici poliespansi, buttati lì nel piatto, sofferenti, ti rendi conto di chi è più malato! Ma
questo passa il convento! In atmosfere così poco estetizzanti, in una specie di
teatrino, perlopiù regolato tristemente da scandali e bustarelle, si consuma il quotidiano rituale culinario
della nostra religio ospedaliera. Coi pasti inespressivi serviti in corsia, che alla fine finiscono più nel bidone dell'umido che nelle pance dei degenti. Anche perché quelli
caldi te li portano freddi, e viceversa… "Colpa del cambio di
turno!". Sigh! All’ospedale, però, il menù, da un po’ di tempo te lo fanno anche scegliere. Alla mattina, dopo la prima "colazione". "Così hanno il
tempo di preparare bene quel che scegli …." - pensi! Scegli su un foglio
prestampato, mettendo crocette qua e là. Se non puoi farlo tu, lo fa un
parente che conosce i tuoi gusti.... Sigh! Le opzioni delle vettovaglie sono quasi sempre le
stesse. Fiacche, quando va bene. Poco
tempo fa un mio amico Chef rinomato conosciuto da tutti, che in sto periodo sta anche facendo consulenza ad una società proprietaria di cliniche ospedaliere private,
mi diceva che solo il 10 per centro delle strutture in Italia ha servizi mensa
adeguati… E che la media food cost di un pasto giornaliero in un ospedale italiano è
di 45,00 euro. Ma ci sono ospedali che per "sfamare"
i loro pazienti spendono fino a 60,00 euro al giorno. Sigh! "Si può spendere molto, molto meno, all'attuale normalità, facendo mangiare meglio" - mi diceva. "Scegliendo materia prima di
qualità, unendola a porzioni umane. Proponendo menu con regimi alimentari più ricchi, più
protettivi, che variano anche sensibilmente secondo le stagioni. Acquistando dalle vicine produzioni del territorio. Utilizzando diverse tecniche di
conservazione e di cottura. Aggiungendo pure la differenziazione dei menu per reparto, allo standard alimentare di buona qualità. Decine e decine di euro in meno!". Io lo sostengo da sempre che se in ospedale si
mangiasse “normale”, si spenderebbe meno e sarebbe più facile e più veloce guarire.! Che se un
paziente lo si nutre poco o male, non ha capacità di recupero! Che se non recupera, resta in ospedale più a lungo! Che se viene dimesso in condizioni precarie, ci ritorna! Che così, i costi aumentano! Ma l’antico privilegio del malato, ormai, se n'è andato. A mia memoria, non so quando. Da una vita credo, e, comunque, da quando siamo in spending review si è fantasmizzato. Ora, senza varcare il confine della retorica…, se è pure vero che nei casi di eccellenza i malati devono sottostare a diete
rigorosamente “ospedaliere”, per la maggioranza dei
ricoverati i cibi però possono essere anche un po’ più mirati!
Cioè, se mi rompo una caviglia, non è che non posso più masticare...! E
allora…?!? Non dico di servire menu arditi a base di tajarin al sugo di salciccia,
bistecca alla fiorentina, ossobuco, costoletta alla milanese, caponata,
saltimbocca alla romana, lombo di maiale, triglie alla livornese, cozze alla
tarantina, tiramisù, bavarese, zuppa inglese…Però…! La rablesiana Penia, inventrice di tutte le arti e di tutte
le tecniche della sopravvivenza, dovrebbe spingere le onniassitenziali
strutture del nostro bel Paese a qualche pensiero sul perfezionamento dietetico
in corsia ed ad una liturgia alimentare più "cristiana".... Opponendosi, certo, alla nostra cultura della gola,
ingegnosa seduttrice, che il più delle volte ci spinge a mangiare più del
bisogno.... Però...! Si avvicinassero almeno un po' al pensiero di una cucina per persone
sobrie, anche se bisognose... Cercando di rappresentare e servire l’arte più semplice della
cucina popolare. Quella di apprestare vivande per soddisfare al bisogno della vita! Per sfamare e far campare! Dite che se fosse così, in 'sti tempi di depressione economica, c’è pericolo che all’ospedale ci
vorrebbero finire tutti?
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