Ho un amico fidentino
- gourmet, ambasciatore del gusto, cercatore di tartufi, con la passione per i
cavalli, Piropì fra tutti che ama, ma di tutti gli animali in genere accolti nella
sua casa di campagna - che dipinge. Per
diletto per ora, sperando che prima o poi prenda coraggio. Con Beppe Siliprandi,
siamo amici da una quindicina di anni. Generoso di suo fino alla dissipazione,
vagabondo dei boschi, portatore di storie tratte dalla sua sconfinata esperienza in natura, Beppesili è un personaggio poliedrico, dall’ironia
affinata, quando vuole anche tagliente, con un sacco di amici ovunque. Ne condivido
con lui alcuni, oltre i tanti interessi comuni. In primis il gusto della
tavola, della campagna. E dell’arte. Credo che se abitassimo più vicini, Beppesili sarebbe per me un “dannato” tentatore del vagabondare ludico spensierato.
Una sera della scorsa settimana, dopo una vita di insistenze,
finalmente mi ha portato a conoscere un pittore delle sue parti di cui mi
parlava sempre e mi aveva fatto vedere anche dei lavori. Una specie di mentore
per lui. Un riferimento importante per Beppe. Non solo per lo stile artistico,
ma anche umano. L’artista si chiama Gianfranco Asveri, con una storia infinita
di sofferenze alle spalle. Si percepisce bene nei suoi lavori di qualche tempo
fa dove i colori sulla tela erano tetri, anche se d’effetto, con sporadiche macchie di colore, soprattutto rosso, solo
qua e là. Nell’età matura Asveri, pianate le sofferenze, ha cominciato a dipingere
con colori più vivi, seppur forti. Con tratti
marcatamente bambineschi però rispetto all’informale di prima. Ed è questo il
suo stile di adesso. Mi piace della sua pittura, oltre che il bagliore dei
principali colori, anche il gesto spontaneo e sproporzionato delle figure:
cani, cavalli, gufi, galli, persone, fiori, casette, alberi, soli, lune,
stelle, …. Tratti e gesti mai precisi, anzi.
Mi piace anche perché i suoi quadri, sono più quadri nello stesso
quadro. Voglio dire che alcuni particolari della stessa tela, potrebbero essere
già di per sé, da soli, dei quadri. Beppesili ed io finalmente siamo andati a trovarlo,
dicevo. Arrivati nella casa-rifugio- studio, avvolta dalle colline tra Parma e
Piacenza, Asveri ci ha accolti come si fa con gli amici di vecchia data. C’ha
messo tre secondi a capire con chi aveva a che fare, oltre il suo discepolo che
conosce bene. Abbiamo dialogato a 360°, trovandoci subito sugli argomenti. Così
che, poco dopo, Asveri mi ha portato al piano superiore della casa in cui lavora e
mi ha aperto la stanza dove dipinge. Il gesto più intimo di un artista che solo poche
volte concede. Se prima ero stato emozionato nello scorrere le sue tante opere
sparse per la casa, fissando gli oggetti del mio desiderio con gli occhi fuori
dalle orbite, qui, dove dipinge Asveri, vado in estasi. Sono in pochi metri, di
quella che era prima una stanza, limitati dalle montagne di barattoli, tubetti
e residui plastici di colore consumati, ammassati in ogni parete dal pavimento
al soffitto. Il suo piano da lavoro, messo lì nel poco spazio centrale rimasto,
è già un’opera d’arte che ruberei. Ho respirato estatico, con avide annusate,
l’odore di quella stanza rapito anche dall’atmosfera. Un’atmosfera da girone dantesco
degli artisti. Dove il cangiare della luce e dell’ombra che sprigionavano le
migliaia di residui dei colori consumati, e il loro profumo intenso che ho
respirato a pieni polmoni, mi hanno rapito per un bel po’. Al congedo Asveri mi ha omaggiato un papiro con la lettera dal capo Sealth della tribù
dei Pellerossa Dywanish al Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, nel
1855. Una lettera in cui si spiega perché il Capo Tribù non voleva cedere le sue
terre. Un inno alla natura, che la dice lunga anche sull’affinità elettiva che si è stabilita
tra noi. Per questioni di spazio sintetizzo con le righe finali: “….Quando i bisonti saranno stati tutti
sterminati, i cavalli selvaggi tutti domati, quando gli angoli segreti delle
foreste saranno invasi dall’odore di molti uomini, e la vista delle colline
sarà oscurata dai fili che parlano, allora l’uomo di chiederà: dove sono gli
alberi e i cespugli? Scomparsi. Dov’è l’acqua. Scomparsa! E cosa significa dire addio al rondone e
alla caccia se non alla fine della vita e l’inizio della sopravvivenza?”.
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