Ad agosto si facevano i turni nel condominio di via Goito, per fare a’cunzerva in cortile…Si guardava prima la luna, poi ci si metteva d’accordo sul calendario fra le famiglie meridionali del palazzo che avevano st’usanza. Oltre la mia, Legame, Attisani, Bonifacio, De Marco, Riccobono,
Carbone, Lisai... Una passeggiata per noi “picciriddi”. Un rito, un’impresa
titanica, una faticaccia "p'i ranni". Il cortile di via Goito, ad agosto, era esclusiva p'a’cunzerva….Non si giocava, non si parcheggiava, non si babbiava. Tanto che per settimane intere l’aria che si respirava lì sapeva di salsa di pomodoro. Frugandomi dentro oggi, (Sigh!), mi
riaffiorano, precisi, tutti i gesti, i segreti, gli ingredienti, le dosi, le operazioni d'a’cunzerva Di Dio. Anzi di mia madre. Perchè era su mia madre, ogni volta, che la responsabilità d'a'cunzerva pesava come un sacco di piombo… C’era da sfamare otto
cristiani e lei, “u succu”, non potendo moltiplicare né pane né pesci, non lo
metteva solo nel latte… Quand’ero piccolo, sapevo che era quasi l’ora d'a'cunzerva già
quando preparavamo le bottiglie in cantina. Una quantità infinita di
“buttigghie” e “buttigghiuni” che
allineavamo in cassette di legno, d’altri tempi, alte e robuste. Il momento da’cunzerva, invece, sapevo che era arrivato quando al mercato mia madre faceva caricare macchinate di pomodori
maturi che comprava, trattando il prezzo fino alla lira. Dai suoi “monzù”, i contadini
fedeli della zona, al mercato del venerdì sulla Rocca. Non senza prima accertarsi, sollevando i primi strati, che i pomodori in cassetta fossero tutti sani…Non
“m’purriti”, marciti, e nemmeno “maccati”!! Che storia…!?! Mi ricordo degli
anni in cui mia madre esagerava addirittura, con la quantità….(Sigh!). E allora, nel
cortile di via Goito, arrivava anche il contadino col trattore e il rimorchio carico a consegnarci i pomodori pa’cunzerva...! "Far’
a’cunzerva" per noi Di Dio, che in famiglia eravamo una tribù, significava tutto.
Risparmio, gusto, salute, dignità, orgoglio, condivisione, abbondanza, generosità... A’cunzerva era pure
un momento di unione familiare e di vicinato. Anche se, all’inizio, i pochi piemontesi
del palazzo, i Barbero, i Marengo, i Sala, ci guardavano per tutto il tempo, sospettosi e curiosi, dalle loro finestre senza mai uscire sul balcone…S’impressionavano..., “meschini”! Nel
vedere quintalate e quintalate di pomodori lavorati in quattro metri quadri, con gesti per
loro impossibili. In un traffico di figure scure, e voci
dialettali per loro a quell'epoca incomprensibili, che si rincorrevano dalle prime luci dell’alba
fino a sera. Quando toccava a noi Di Dio a'cunzerva, alle 5 del mattino, in cortile, era già tutto perfettamente predisposto e
ordinato. La gomma dell’acqua, chilometrica, che calava giù dal balcone
attaccata al rubinetto di casa, (ero io che mi facevo su e giù per due piani ad aprire e a chiudere). Il bombolone del gas, enorme e minaccioso. Il tripiede della
fiamma con sopra a"caurana, il pentolone fuori misura in cui si cuocevano i pomodori. I “mastidduni”, i giganteschi recipienti di
plastica a tre maniglie per lavare i pomodori uno a uno. I “buttigghi” e i “buttigghiuni”, possibilmente quelli verde scuro, spessi, incastrati bene senza spazi tra loro, nelle cassette tutte intorno alla fiamma a scaldare. Il tappa
bottiglie manuale, già oliato. Il secchio pieno zeppo di tappi di sughero, quelli migliori, quelli larghi, che costavano una cifra.... Il tavolo in formica con piazzata su la
mitica spremipomodoro, metallica a manovella. 4 sedie forti, anche se mezze "scasciate". I mazzi di "basilicò" a iosa. Le paccate di sale rigorosamente grosso. E poi, pile di coperte di lana, spesse e pungenti, per coprire almeno una settimana le bottiglie piene d’cunzerva. Mia madre era
il generale che gestiva tutte le operazioni. Con occhi dappertutto….
Poche parole, ma di comando. A chi era all’acqua, a chi era al fuoco, a
chi alle altre infinite operazioni. “A’cunzerva sadda fari ‘na vota sula”! - era il
suo imperativo. Cioè si fa tutta in una volta! Non importa se ogni anno lei aumentava
la quantità, e ne faceva a più non posso con la scusa che i pomodori costavano
qualche lira in meno al chilo…. Avevamo un meotodo tutto nostro p'a’cunzerva....!
Si toglievano i “piccuddi” dei pomodori, prima di lavarli. Poi i pomodori si schiacciavano
uno a uno con una mano, usandole tutte e due insieme, per togliere l’acqua interna...Un "travagghiu p’puzzi, (polsi), forti...!". Così, si mettevano a cuocere sulla “caurana” per ore, e ore, e s'"arriminava"...! Si rigirava, sempre nello stesso verso, con un bastone tipo remo di barca. Col "rematore" di turno, ruscellante di sudore per il caldo e per il fumo che bruciavano pelle e occhi, che doveva evitare di farla“appigghiare
ou funnu”. Una volta cotto e ricotto al punto giusto (Sigh!), il pomodoro si passava da un contenitore all’altro... Lava incandescente...., colata prima nel colapasta, perché secondo mia madre non doveva vedersi nemmeno un semino... Poi nello spremipomodoro a mano, con la
manovella che non si fermava mai… Passato il tutto, almeno due volte,
si rimetteva di nuovo a ribbollire... Solo più per "'na sussunnata", però (Sigh!)! Per “aggiustarla” di gusto, con zucchero e sale. Il basilico, lo mettevamo solo in ultimo. Foglia per foglia, crudo, direttamente nel collo delle bottiglie, un attimo prima di riempirle, col lavoro a catena, d'cunzerva zampillante. Alla fine si tappava, avendo cura di oliare prima l'enorme tappo per facilitare l'operazione. Ogni tanto qualche buttigghia o buttigghiune “esplodeva”….E per mia madre, era come un lutto!
martedì 30 agosto 2016
martedì 23 agosto 2016
Comfort food
Si chiama
“comfort food”. Cibo che ti coccola, che ti fa star bene, comodo. Che ti
rimette in pace con te stesso. Un bel cashmerino, insomma, del palato e della
pancia. Il termine ce lo siamo importato dagli States…(Sigh!,
loro si che se ne intendono in fatto di creazione continua di tendenze,
acronimi, sigle, modi di dire…), e da un po’ di tempo va molto di moda anche da
noi. Comfort food per indicare quello o quell’altro piatto, pranzo, cibo,
che ti fa star bene. Qualcosa che ti rende preda di un esprimibile
benessere... Ne parlo solo oggi, perché ultimamente il comfort food,
quello che ti fa anche ricordare le tue origini, le tue radici, ho avuto la
fortuna di “trovarlo” pure fuori casa in alcuni locali che ho frequentato. Così ho
pensato di scrivere quel che secondo me è la miglior manifestazione del
“Comfort Food”. Senza tante sofisticate acrobazie mentali…! Per me, il
comfort food, rimane quello compiuto dai dolci rituali della tradizionale
settimana alimentare italiana. Il comfort food lo si può benissimo tradurre nei
cinque giorni della nostra cucina ordinaria e profana. Un giorno, il venerdì di
astinenza, dalle carni. La domenica di cucina festosa e sacramentale. Una
settimana alimentare in cui si risparmia e si abbonda. Non l’eccesso del cibo e
neanche la sua scarsezza. Una filosofia gastronomica che non conosce sprechi,
splendori insoliti e stravaganze, ma che si raccomanda per il temperato buon
gusto. Non so quanti amino praticare il
rituale della tradizionale settimana alimentare italiana….! Io, per quanto posso,
lo faccio. Il mio comfort food, la cucina ordinaria e profana, la cerco dentro
e fuori casa. In un’alternanza non solo di cibi, ma anche di tempi di
consumazione, di atteggiamenti, di lessico, di gesti, di valore assoluto. Per
me il comfort food sono i pranzi che esprimono un tipo di cultura nel quale,
oltre il convivio di sopra, anche il gusto, la tradizione, il tempo e
l’economia, hanno un valore vero. Ahh, le ore e i tempi del convivio….! Ahh, i soldi spesi bene….! Ahh, l’armonica e ben dosata varietà delle portate….!
martedì 16 agosto 2016
Patologia moderna
Estate, caldo, mare. Le località balneari sono al massimo
splendore. Il litorale fiorisce, la
gente si spoglia, e se ne vedono di tutti i colori. Non parlo di abbronzature.
Parlo di noi che popoliamo il bagnasciuga con indosso non altro che il costume!
Quel che basta per esaltare lo stile…. Quest’anno, c’ho fatto ancor più caso. E
ho notato un numero impressionante di bambini, maschietti e femminucce, indifferentemente,
con seni da adulti. La ginecomastia puberale sta avanzando in maniera
esponenziale tra le nuove generazione. Con tutti i problemi, fisici e psichici,
che ne comporta. Il contributo dell'alimentazione nella comparsa della
ginecomastia è molto alto. E' il più importante! Dipende dal fatto che si mangiano
i cosiddetti cibi “simil-estrogenici".
Quegli alimenti cioè, contaminati da sostanze che hanno una particolare
affinità per i recettori degli estrogeni. Ce ne sono un fottio in giro di
componenti chimici che possiedono caratteristiche nocive… I principali?
Fitofarmaci, promotori della crescita del bestiame, farmaci per uso umano e
veterinario,.…..Ma ci sono un’infinità di cose, alimentari e no, che possono
contenere sostanze chimiche estrogeniche dannose per la salute. Peccato che non
vengono fuori nelle etichette. Facendo riferimento al cibo, per esempio, i
componenti estrogeni di sopra, “fioriscono” negli allevamenti intensivi, nei mangimi, nei
concimi, nei trattamenti della terra... E di conseguenza nei loro derivati, ovviamente. Nella carne, nel latte, nel pane, nella
verdura, nella frutta. Niente si salva! Tutto può contenere o contiene estrogeni. Quando non basta il cibo, noi, la
ginecomastia, la aiutiamo con gli integratori. Demenziale! Abitudine che solo
apparentemente, però, appartiene agli adulti. E non solo tra gli sportivi! Gli
integratori ormai si trovano in ognidove:
farmacie, parafarmacie, grande distribuzione…E abbondano pure i loro distributori
automatici ormai dappertutto, nelle aree di servizio, nelle palestre,
negli aeroporti, nelle stazioni, nei posti di lavoro, nelle scuole… Non si
mangia più quello o quell’altro cibo, perché tanto non sono più come una volta,
non contengono più certi principi…., e allora si va di integratori. Oppure,
ancor peggio, si mangia tutto e si “integra”, anche. La colpa, dicono, è del degrado ecologico della biosfera. I
valori nutrizionali della nostra agricoltura, grazie alle tecniche di crescita
forzata, non valgono più una mazza. Finché l’agricoltura non recupera la sua
ecologia, garantendo però anche adeguati livelli produttivi, non se ne esce.
Finché la qualità dei prodotti non è corrispondente a quei requisiti nutritivi
che garantiscono all’uomo, non solo la sopravvivenza, ma soprattutto la migliore qualità
della vita e la salute, siamo in trappola. E ci rimarremo parecchio. Almeno
fino a quando non saremo disposti a resettare il sistema della chimizzazione
agricola e rigenerare, o forse meglio rinnovare, la terra. E dopo, anche, fino a quando saremo
finalmente disposti a pagare un chilo di verdura buona, ecologica, non
trattata, (da non confondere con biologica), almeno quanto una più scarsa
confezione di integratori… Sigh! Si, lo so, credete sia un visionario che si
illude di poter vivere in un nirvana avulso dalla realtà….! Ma volete
mettere….., per i nuovi ometti, soprattutto…, crescere senza il complesso delle
tette grosse?!?
martedì 9 agosto 2016
Tipico a tutti costi
So che ci
avete fatto caso da un pezzo anche voi. Il mosaico culinario nazionale, durante i mesi
estivi, tende fatalmente a polverizzarsi capillarmente in migliaia di Sagre, incontrollabili, per promuovere prodotti tipici e ricette della tradizione. La
scena, solitamente, è quella della rappresentazione del tipico, della cucina
popolare, esercitata da variopinti gruppi sociali, di etnie, di varietà
municipali, di genealogie dialettali, che fanno la gara a chi ha più fantasia
ad inventarsi un qualche appuntamento ciboso in una qualsiasi Piazza d'Italia. No so a voi, ma da un paio di mesi a sta parte a me sono arrivate una cifra
infinita di news letters, mi sono passati fra le mani non so quanti depliant o
comunicazioni similari, che riportano programmi di feste o sagre inneggianti al
tipico e alla sua cucina. Programmi il cui frontespizio è già irto di slogan, di messaggi programmatici, di titoli, di grafica, inneggianti il gusto. In ognidove, il cibo è messo lì a catturare consensi, oltre
che celebrare l’orgoglio delle radici. E’ l’uso estivo sociale del cibo…! La gastronomia italiana del prodotto tipico, che degenera il più delle volte in banalissima solennità conviviale popolare, quasi di derivazione carnevalesca...Alcuni
favorevoli alle situazioni di destra, altri indirizzati piuttosto a sinistra. Alcuni
promossi come conservatori, altri dichiarati innovatori… In un gioco quasi
rituale, uguale. Dove, però, non sfugge anche l’elemento economico per chi organizza e
gestisce! Che ha un ruolo di rilievo non indifferente, nonostante, alla maggior parte
delle Sagre, lavorino a ciclo continuo, furiosamente, per tutta l’estate,
pure nel giorno del Signore, associazioni di variegata fauna, politico-religioso-assistenziale-nostalgica….Così rendono le Sagre più "democratiche", più "umane"..., più “pulite”. La scusa è quella di voler soddisfare, orgogliosamente, la
frenetica domanda del popolo vacanziero, della cucina dialettale,
popolare, municipale, locale….Con un'offerta "buona-sfiziosa", low cost! Nella “sacralità” di questi rituali culinari
estivi si consuma freneticamente l’esaltazione del tipico a tutti costi. Cascando, il più delle volte però, nel
cerimoniale del “vale tutto”... Basta che si mangia e si beve. Dove non c’è il tipico, manco se lo inventano, si punta sul classico che non delude mai: la Sagra del prosciutto, melone e bruschetta, la Sagra degli spaghetti, la Sagra del fritto misto, la Sagra della cozza, la Sagra della pasta cu l’agghia e sasizza arrustuta…..Alle Sagre però va anche in
scena, mascherata, la manipolazione “politica” del consenso…..Il prodotto tipico, usato come persuasore occulto, di sinistra o di destra, consacrato a
paladino del “Vota Antonio” di turno del territorio. Il tipico a tutti costi, mito trionfante e influenzatore,
al servizio dei consensi e dei profitti facili anche. E’ questo l’effetto
morale 2.0 degli alimenti "local" che salta agli occhi d'estate. Comunque sia, potessi, io non mi perderei le sorprese della Sagra della "Ficamaschia dorata", (il merluzzetto fritto), il valore lustrale della "Sagra dei Ciammaruchigli", (le lumachine di
terra), la magia della "Sagra dei Cecapreti", (la pasta tipo gli strozzapreti), l'alchimia della "Sagra dei Fasul scucchiularèdda", (i
fagioli salernitani)...Ma nemmeno le vertigini della Sagra “Te c'hanno
mai mannato a stò paese?”…
lunedì 1 agosto 2016
Menu in corsia
“Ciascuno
esige che il progresso ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a
lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all'infinito.
E' il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte” - come diceva il
saggista e autore Ivan Illich. Senza dimenticare che "questo disgusto dell'arte
di soffrire è la negazione stessa della condizione umana" - sempre Illich - la
notizia che segue, arrivata via web, mi offre lo spunto per quel che scrivo. “In Canada
ad Ottawa, il manager mangia il cibo del suo ospedale e cambia il menu in corsia perché
gli fa schifo...”. Ora alzi la mano chi di voi ha fatto tappa, corta o
lunga, in un qualsiasi reparto d’ospedale e ha mangiato cibi pattumiera….Al
limite della nausea, se non del disgusto. Siamo un casino! Lo so! Sfioriamo
l’en plein! Brodini timidi, minestre insapore, polpettine sgonfie… Purè, carote, verdure lesse, a bivaccare malinconicamente in contorno. Pere o mele cotte, asciutte, smunte, senza quasi
più polpa, che non hanno più nulla a che fare con la fruttanutrizione! Figuriamoci con l'appetito.... Quando si ha fortuna in ospedale però spunta anche il menu "consacrato". Solitamente è quello domenicale, che si arricchisce di “stuzzicanti” varianti.
Così, all’ordinaria amministrazione, si aggiungono farfalline senili al sugo schivo, prosciutto cotto, sempre giù di corda, bistecchina d’arrosto, color grigio topo, millimetrica, gommosa, con più nervi che carne.... Quando vedi tutta sta specie di derivati alimentari più vicini agli esteri vinilici poliespansi, buttati lì nel piatto, sofferenti, ti rendi conto di chi è più malato! Ma
questo passa il convento! In atmosfere così poco estetizzanti, in una specie di
teatrino, perlopiù regolato tristemente da scandali e bustarelle, si consuma il quotidiano rituale culinario
della nostra religio ospedaliera. Coi pasti inespressivi serviti in corsia, che alla fine finiscono più nel bidone dell'umido che nelle pance dei degenti. Anche perché quelli
caldi te li portano freddi, e viceversa… "Colpa del cambio di
turno!". Sigh! All’ospedale, però, il menù, da un po’ di tempo te lo fanno anche scegliere. Alla mattina, dopo la prima "colazione". "Così hanno il
tempo di preparare bene quel che scegli …." - pensi! Scegli su un foglio
prestampato, mettendo crocette qua e là. Se non puoi farlo tu, lo fa un
parente che conosce i tuoi gusti.... Sigh! Le opzioni delle vettovaglie sono quasi sempre le
stesse. Fiacche, quando va bene. Poco
tempo fa un mio amico Chef rinomato conosciuto da tutti, che in sto periodo sta anche facendo consulenza ad una società proprietaria di cliniche ospedaliere private,
mi diceva che solo il 10 per centro delle strutture in Italia ha servizi mensa
adeguati… E che la media food cost di un pasto giornaliero in un ospedale italiano è
di 45,00 euro. Ma ci sono ospedali che per "sfamare"
i loro pazienti spendono fino a 60,00 euro al giorno. Sigh! "Si può spendere molto, molto meno, all'attuale normalità, facendo mangiare meglio" - mi diceva. "Scegliendo materia prima di
qualità, unendola a porzioni umane. Proponendo menu con regimi alimentari più ricchi, più
protettivi, che variano anche sensibilmente secondo le stagioni. Acquistando dalle vicine produzioni del territorio. Utilizzando diverse tecniche di
conservazione e di cottura. Aggiungendo pure la differenziazione dei menu per reparto, allo standard alimentare di buona qualità. Decine e decine di euro in meno!". Io lo sostengo da sempre che se in ospedale si
mangiasse “normale”, si spenderebbe meno e sarebbe più facile e più veloce guarire.! Che se un
paziente lo si nutre poco o male, non ha capacità di recupero! Che se non recupera, resta in ospedale più a lungo! Che se viene dimesso in condizioni precarie, ci ritorna! Che così, i costi aumentano! Ma l’antico privilegio del malato, ormai, se n'è andato. A mia memoria, non so quando. Da una vita credo, e, comunque, da quando siamo in spending review si è fantasmizzato. Ora, senza varcare il confine della retorica…, se è pure vero che nei casi di eccellenza i malati devono sottostare a diete
rigorosamente “ospedaliere”, per la maggioranza dei
ricoverati i cibi però possono essere anche un po’ più mirati!
Cioè, se mi rompo una caviglia, non è che non posso più masticare...! E
allora…?!? Non dico di servire menu arditi a base di tajarin al sugo di salciccia,
bistecca alla fiorentina, ossobuco, costoletta alla milanese, caponata,
saltimbocca alla romana, lombo di maiale, triglie alla livornese, cozze alla
tarantina, tiramisù, bavarese, zuppa inglese…Però…! La rablesiana Penia, inventrice di tutte le arti e di tutte
le tecniche della sopravvivenza, dovrebbe spingere le onniassitenziali
strutture del nostro bel Paese a qualche pensiero sul perfezionamento dietetico
in corsia ed ad una liturgia alimentare più "cristiana".... Opponendosi, certo, alla nostra cultura della gola,
ingegnosa seduttrice, che il più delle volte ci spinge a mangiare più del
bisogno.... Però...! Si avvicinassero almeno un po' al pensiero di una cucina per persone
sobrie, anche se bisognose... Cercando di rappresentare e servire l’arte più semplice della
cucina popolare. Quella di apprestare vivande per soddisfare al bisogno della vita! Per sfamare e far campare! Dite che se fosse così, in 'sti tempi di depressione economica, c’è pericolo che all’ospedale ci
vorrebbero finire tutti?
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